Provo di seguito a ragionare sulla “questione meridionale italiana” e in particolare sul rapporto esistente tra la cultura della legalità, l’attribuzione di valori e i sistemi di potere nelle regioni Sicilia, Calabria, Puglia e Campania e quindi sul rapporto tra politica, organizzazioni criminali mafiose, lobbies di potere e società civile nelle regioni suddette e sul modo attraverso cui questi attori convivono sul medesimo territorio e producono regolazione sociale. Volutamente non evito l’ovvietà di alcune considerazioni concettuali poiché, come sosteneva Max Weber, ciò che viene acquisito intuitivamente viene pensato in misura minore. Obiettivo di questa riflessione è cercare di comprendere quale fattore o insieme di fattori, e in che misura, abbia causato – e continui a causare – la scarsa e perversa regolazione sociale del Mezzogiorno d’Italia e quindi cosa abbia pregiudicato – e continui a pregiudicare – l’armonioso sviluppo sociale, politico ed economico dello stesso. Credo che tale deficit di regolazione sia da imputare essenzialmente a due fattori: l’annosa, diffusa e radicata presenza sul territorio delle organizzazioni criminali di stampo mafioso (cosa nostra, ‘ndrangheta, sacra corona unita e camorra, di fatto capaci di sostituirsi allo Stato nella sua funzione di controllo del territorio e di erogazione di servizi e benefici) e la diffusa corruzione politica e delle classi dirigenti. Entrambi sono espressioni dello stesso fenomeno: l’illegalità legittima o la legittimità illegale imperante in Italia e in special modo nel Sud. Parto dall’amara constatazione che la maggior parte di noi cittadini italiani meridionali continua, coscientemente o meno, a cedere parte della propria sovranità a due ordini costituiti: lo Stato e la mafia (qui menzionata come insieme di organizzazioni criminali mafiose), percepiti talvolta come entità distinte e contrapposte, talaltra come entità fuse, confuse e complementari. A questa amara constatazione se ne aggiunge un’altra non meno amara: tali organizzazioni mafiose non solo hanno saputo resistere ai cambiamenti della società italiana meridionale, ma si sono nutrite di essi (come accaduto con l’avvento della società di mercato e della globalizzazione) e hanno saputo infiltrarsi nelle istituzioni democratiche e in tutti i comparti economici e finanziari delle regioni del Sud nella complicità, diretta o indiretta, di gran parte delle classi politiche e dirigenti – che vi hanno ceduto per ragioni di consenso politico, per interessi al malaffare o per paura – e nella costretta collaborazione di gran parte della società civile. Sono cose che la realtà ci ricorda quotidianamente. Ma mi chiedo: perché, pur essendo passato tanto tempo dalla unità d’Italia e dalla fine del brigantaggio e pur essendo oggi l’Italia un paese democratico avanzato, noi cittadini meridionali continuiamo di fatto ad avversare lo Stato, a non collaborare con esso e ad alimentare un sistema perverso come quello politico-mafioso? Le ragioni sono diverse e complicate ma credo riconducibili a due condizioni interrelate fra loro, se non proprio conseguenza l’una dell’altra. La prima è che l’esistenza storica della mafia e delle sue collusioni con l’ambiente politico ed elitario nelle regioni su citate, unita alla pervasione della corruzione politica, ha permesso la costruzione di un potere che oserei definire – parafrasando la classificazione del potere weberiana – di tipo ‘razionale illegale’, e questo potere – più che parallelo, trasversale, rispetto a quello razionale legale e spesso più efficace di questo – ha finito con il creare una distorta attribuzione di valori e un perverso sistema di relazioni sociali, in cui l’illegalità e la furbizia sono diventate purtroppo dei valori condivisi e dunque collettivi. La seconda è che la consapevolezza da parte di noi cittadini meridionali della potenza e della spietatezza del potere mafioso e della vastità del fenomeno della corruzione, e più in generale dell’anzidetto ‘ potere razionale illegale ’ ci ha costretti in una condizione psicologica collettiva che richiama molto la cosiddetta ‘ sindrome di Stoccolma ’, ovvero quel processo psicologico inconscio che promuove relazioni affettive inverosimili fra vittime di sequestro e rapitori, coinvolgendo sia gli ostaggi che i sequestratori in un legame positivo. Proverò di seguito ad enucleare gli azzardi teorici accennati. Potere razionale illegale. Questo ‘ potere razionale illegale ’ si caratterizza per la capacità di raggirare, eludere e manipolare le leggi dello Stato a fini particolaristici, affaristici e criminali. Assunto che in una società i valori si attribuiscono in virtù delle qualità che servono per conquistare e mantenere posizioni di potere e prestigio, nella società italiana, ed in quella del Mezzogiorno in particolar modo, la capacità di eludere e manipolare le leggi dello Stato e di trarre benefici da situazioni criminose ed illegali ha creato delle evidenti situazioni di potere e privilegio ed è di fatto divenuta un valore. Basti pensare alle condizioni economiche e sociali e quindi al tenore di vita di molti uomini mafiosi o di molti politici notoriamente collusi, ricchi potenti ed impuniti, ma anche a tante situazioni molto più modeste di illegalità legate alle piccole conquiste quotidiane. Senza voler scadere in generalizzazioni, un’ampia parte delle erogazioni di servizi, del riconoscimento e della garanzia di diritti, del funzionamento di concorsi pubblici, di prestazioni sanitarie, di assunzioni, incarichi e prestazioni professionali in genere, di elezioni politiche, di distribuzione delle risorse, di conseguimento di titoli e diplomi, di traffici e relazioni commerciali è inquinata da situazioni di illegalità, sia sotto forma di particolarismi, che di clientelismi, di raggiri, di tangenti. Trattasi di un potere ‘razionale’ perché mosso da un agire razionale rispetto alla scopo, a volte addirittura geniale nella sua strategia nel delinquere; ‘ illegale ’ perché si muove ed opera in un contesto più che altro esterno e contrario alle leggi dello Stato, anche se sovente mascherato e protetto da un sistema di legalità apparente. Suo proprio fine è disattendere leggi, norme e regolamenti per ricavarne vantaggi e privilegi personali e familistici. Sindrome di Stoccolma collettiva. Noi cittadini delle regioni meridionali siamo pienamente consapevoli di questa situazione, e vale a dire della potenza delle organizzazioni mafiose e di quelle affaristiche e del loro intreccio con la politica, la massoneria, l’imprenditoria, la pubblica amministrazione, la finanza. Siamo pienamente consapevoli del livello generale di corruzione esistente nei vari strati sociali perché spesso lo abbiamo verificato a proprie spese e danno, magari in maniera traumatica e violenta. La violenza, come ben si sa, continua a condizionare ancora la vita privata e pubblica in tante città e paesi del Sud. Ma soprattutto, i cittadini siamo coscienti e convinti della incapacità dello Stato e delle sue istituzioni di risolvere questa situazione in tempi brevi ed in modo definitivo. Ciò è causa inevitabile di angoscia. Dal potere mafioso e razionale illegale dipendono molti benefici, molte risorse, il bisogno di sicurezza e nei casi più gravi l’incolumità fisica, soprattutto laddove il potere mafioso affaristico è molto forte e ha creato posti di lavoro e dispensato privilegi. Tentare di sottrarsi o meglio di opporsi in maniera netta e coraggiosa a questo sistema comporta più che altrove, disagi, privazioni, solitudine, intimidazioni, spesso danneggiamenti a cose e beni personali, a volte rischi per la propria incolumità fisica e delle proprie persone care, non di rado la morte. Per cui, il bisogno alla realizzazione personale, all’accettazione sociale, alla fruizione di risorse e privilegi, alla sopravvivenza fisica e la contemporanea sfiducia nella Giustizia dello Stato – che di fatto ha permesso e continua a permettere questa situazione – spinge tanti di noi a reagire in maniera emotiva automatica ed inconscia e ad ‘affezionarci’ – nel senso di sviluppare simpatia, solidarietà, empatia, comprensione, e non invece odio, repulsione e risentimento – verso questa gente di cui siamo nei fatti ostaggio e vittima. Odio, repulsione e risentimento che manifestiamo invece verso l’esterno, lo Stato, le sue istituzioni e le sue forze dell’ordine. Ne è prova l’omertà di tanta gente del Sud, le violenti resistenze alle forze dell’ordine che cercano di arrestare delinquenti nei quartieri popolari, ma anche, se vogliamo, il semplice lampeggiarsi con le auto per segnalarsi a vicenda la presenza di una pattuglia di forze di polizia sulla strada. Certo si può andare via, emigrare – come difatti purtroppo continua ad avvenire in modo emorragico dalle nostre regioni, ultimamente soprattutto giovani con titoli di studio – ma la maggioranza di chi, per diversi motivi, è costretto o vuole restare a vivere nella propria regione finisce per rassegnarsi e adeguarsi al sistema, con piccoli e spesso illusori spazi di libertà, oppure cerca continuamente di resistere e lottare affrontando e sopportando notevoli disagi e difficoltà. E’ significativo a tal proposito quanto dice lo studioso Enzo Ciconte: “…Da parte di singoli cittadini è invalsa l’abitudine di pretendere quello che vogliono dagli amministratori. Pensano di poterlo ottenere con ogni mezzo, compreso l’uso della forza. Non sono appartenenti alle cosche, ma singoli cittadini che decidono di passare alle vie di fatto per ottenere qualcosa o vendicarsi di qualcos’altro, con metodi esplicitamente mafiosi. Insomma, non è la ‘ndrangheta che colpisce direttamente, ma la sua cultura diventa un modello adottato anche da chi è esterno alle cosche: violenza e prevaricazione non sono considerati disvalori, mentre la strada della legalità è sentita come un binario morto.” Se non letto anche in termini di psicologia sociale risulterebbe difficile capire come mai per esempio consiglieri regionali più volte inquisiti per reati gravissimi, capimafia e soggetti appartenenti a cosche malavitose e ad ambienti del malaffare vengano subissati di consensi elettorali e circondati ed avvolti di consenso sociale. E risulterebbe altresì difficile comprendere il perché si accetti per esempio l’imposizione di un doppio regime fiscale, quale quello rappresentato dalle tasse da un lato e dal pizzo dall’altro.
Questo, almeno, sembra essere quanto avvenuto sinora; non certo in tutte le circostanze e non da parte di tutti, si capisce. Tali comportamenti dipendono chiaramente dal luogo dove si vive e dall’intensità dei fenomeni descritti, dalle caratteristiche personali, dallo stato del bisogno, dal grado di maturità, cultura ed educazione delle persone coinvolte ma, in linea di massima, sono comportamenti diffusi e non certo episodici nelle regioni citate del Mezzogiorno.
11 gennaio 2009
Francesco Lo Giudice