Caro Matteo,
come tanti ho seguito dapprima con diffidenza, poi con ammirazione, ora con un misto di apprensione e speranza la Tua affermazione e il Tuo procedere nel sistema politico italiano. Una speranza comune alla maggioranza degli italiani che, al pari di un vello d’oro, legittima il Governo che guidi nell’impresa di riformare la società e i suoi settori più complessi. Non vi è dubbio che risulta ineludibile risolvere le importanti criticità di ognuno di questi ultimi se si vuole rilanciare la crescita e l’occupazione nel nostro Paese, questa volta sulla base di architetture appropriate ai tempi che corrono. Consapevole di ciò, ho deciso comunque di scriverTi sperando di trasmetterTi una personale convinzione: il sud si configura come una possibile soluzione alla crisi nazionale. Mi spiego meglio. Come sai, la nostra Repubblica non è riuscita finora, da sessantasei anni a questa parte, a risolvere il dualismo economico e sociale interno tra il nord e il sud del territorio, tollerando di fatto un divario civile che, per le sue peculiarità e il suo essere funzionale al modello di sviluppo industriale, non ha pari nel resto d’Europa. Complice la crisi, questo modello mostra oggi tutti i suoi limiti e si rivela non più idoneo a garantire la crescita della nostra economia. Ecco la necessità di investire sul rilancio del sud. Rappresentando del resto un terzo del Paese, sia per estensione geografica che per numero di abitanti, il sud ha ampi margini di progresso dato che la maggior parte delle sue risorse, innanzitutto umane, e delle sue potenzialità produttive, legate soprattutto all’ambiente, ai beni culturali e al territorio, è ancora da valorizzare adeguatamente. Vi è di più. Il suo progresso, in passato ritenuto spesso un rischioso quanto improduttivo investimento, è oggi favorito dal mutare di una serie di circostanze interne ed esterne di grande rilevanza, quali ad esempio: l’affermazione delle fonti rinnovabili di approvvigionamento energetico; il ritorno di centralità geopolitica e commerciale del Mediterraneo; l’accresciuto livello di informazione e istruzione di massa; l’apporto culturale, economico e demografico garantito dall’immigrazione; il protagonismo sociale delle donne; la consistenza dei fondi comunitari europei; la vitalità dell’associazionismo, dell’imprenditoria giovanile e del terzo settore; l’affermazione di un nuovo meridionalismo intellettuale e di una ritrovata fierezza di appartenenza. Combinazione di circostanze semplicemente inimmaginabile fino a qualche decennio fa, la quale, se valorizzata da un’opportuna programmazione governativa, lascia presupporre una possibile metamorfosi della realtà meridionale e un relativo processo di affrancamento di questa da molti dei suoi annosi mali sociali. Il che contribuirebbe a sanare una delle più grandi diseguaglianze italiane, (quella appunto tra nord e sud, contraria allo spirito democratico della nostra Costituzione), favorirebbe una maggiore coesione territoriale e contribuirebbe al rilancio dell’intero Paese. Nonché, lasciamelo dire, farebbe bene anche all’Europa unita, nella quale comincia a intravedersi una questione meridionale in quanto sta sviluppando tendenze dualistiche simili a quelle che hanno caratterizzato l’evoluzione storica e politica dell’Italia fino ai giorni nostri. Puntare su una maggiore coesione sociale e territoriale del Paese è un investimento che non da, è vero, risultati immediati, ma li da reali e duraturi. E’ pertanto roba da statisti. Lo capì infatti De Gasperi, impegnandosi a favorire l’emancipazione del sud Italia riformando settori quali i lavori pubblici, l’agricoltura, il fisco e la finanza, e riuscendo a convincere i rappresentanti dell’area settentrionale della convenienza di un armonico sviluppo del Paese. E lo hanno capito in Germania dove, nel giro di soli venti anni, dalla riunificazione delle due Repubbliche tedesche in poi, i Governi che si sono succeduti hanno investito qualcosa come 1.500 miliardi di euro attuali sul progresso della Repubblica Democratica portandola a quasi gli stessi livelli di quella Federale, e garantendo così la potenza della Germania di oggi. E le due Germanie presentavano divari infrastrutturali, culturali ed economici simili a quelli che dividono la nostra Italia ormai da troppo tempo. Sia i governanti italiani degli anni ‘50 che quelli tedeschi degli anni ‘90 capirono insomma che, come recita un adagio, la forza di una catena è pari alla forza del suo anello più debole, e hanno agito sull’anello più debole per rafforzarlo. In questo senso, cambiare verso all’Italia significa anche e soprattutto questo. Ossia ripartire da sud, metaforicamente dal basso, cioè da quelle situazioni sociali più deboli, che presentano scarti molto ampi tra le potenzialità che possiedono e i risultati che, con queste, riescono a ottenere. Al sud c’è infatti tanta energia umana virtuosa che costantemente opera e insiste seppur imbrigliata da condizioni sfavorevoli e demotivanti e su cui bisogna far leva con interventi appropriati, onde sprigionarne tutte le capacità. Pensa solo a cosa potrebbe accadere se nelle regioni meridionali si abbassasse l’imposizione fiscale, (oggi più elevata che al nord nonostante i redditi più bassi); si facilitasse l’accesso al credito a privati e a imprese; si potenziassero le infrastrutture viarie e digitali; si connettesse efficacemente la formazione con il lavoro. Te lo dico io cosa potrebbe accadere: sarebbe un fiorire di start-up e nuove aziende; quelle esistenti si riprenderebbero; molte imprese del settentrione inizierebbero a delocalizzare la produzione al sud (anziché in altri Paesi come fanno oggi) anche per la vicinanza ai mercati nordafricani e mediorientali; città e territori verrebbero riqualificati; consumi e competitività salirebbero rapidamente, comportando di fatto un nuovo miracolo economico e civile italiano. E’ una grande occasione che spero non sottovaluterai.
Cordialmente,
Francesco Lo Giudice
Capogruppo PD a Bisignano (Cs)
Responsabile Cultura ANCI Giovani Calabria
Autore del libro ‘’Cambiare il sud per cambiare l’Italia’’
Dottore di ricerca presso Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università della Calabria.